Omelie 2014 di don Giorgio. Sesta Domenica di Pasqua

25 maggio 2014: Sesta di Pasqua
At 4,8-14; 1Cor 2,12-16; Gv 14,25-29
Nei tre brani della Messa, e in generale nei brani che la liturgia ci offre da leggere e da meditare in questo periodo pasquale, lo Spirito santo è sempre presente: è il vero protagonista assoluto della nascita e dello sviluppo della Chiesa di Cristo. Scusate se insisto: non dovremmo parlare semplicemente di Cristo che continua a rivivere nella storia, ma di Cristo mistico, ovvero del Cristo che rivive nello Spirito santo.
Il brano degli “Atti degli Apostoli” ci presenta il terzo discorso tenuto da Pietro, dopo la discesa dello Spirito santo nella Pentecoste. Un discorso molto breve, ma esplicito: in poche parole, l’apostolo dice che non è stato lui a compiere la guarigione dello storpio che stava davanti al tempio a elemosinare, ma quel prodigio è avvenuto “nel nome di Gesù Cristo il Nazareno”, il Risorto nello Spirito.
Questa spiegazione Pietro la dà davanti ai caporioni ebraici, che si erano subito allarmati e preoccupati che qualcuno stesse per mettere a rischio la loro autorità costituita. Costituita in nome di chi? di quale Dio?
“Con quale potere o in quale nome voi avete fatto questo?”. È sempre la solita domanda che torna: “Con quale potere o in nome di chi?”. Tutto deve restare nell’ambito del proprio potere politico o religioso. Non è concepibile e non è sopportabile che succeda qualcosa al di fuori di questo ambito. Si comporterà così anche la Chiesa lungo i secoli: nulla dovrà avvenire fuori del potere ecclesiastico, tutto deve restare nel cerchio fissato dai paletti del potere. Gli stessi apostoli avevano tentato di frenare il loro Maestro, quando era in vita. Ma Gesù non si era mai lasciato condizionare.
“Con quale potere e in nome di chi?”. Già dire potere è dire paura che qualcuno o ne abbia un altro più forte o sfugga a qualsiasi potere. Chi non ha potere perché sfugge alla legge del potere facendo prevalere ad esempio la forza dello spirito fa più paura di chi ha più potere terreno. Il potere teme gli spiriti liberi, proprio perché costoro escono dal cerchio, e sono inafferrabili. La lotta tra chi ha potere è una lotta diciamo simmetrica. La lotta tra potere e spirito è una lotta asimmetrica: le armi sono completamente diverse. Se anche tu avessi la bomba atomica più potente del mondo non mi fai paura, perché io ho una bomba atomica, che si chiama lo spirito di libertà. E lo spirito costa nulla in soldi, è un dono accessibile a tutti.
Ecco perché continuamente affermo e sostengo che la Chiesa non doveva, tanto meno oggi, appoggiarsi sulle forze terrene o sui mezzi potenti di questo mondo. La sua forza non sta nel potere umano, non è la conquista di terre, non è il proselitismo o la conquista delle anime, non è il numero dei seguaci o la quantità delle istituzioni. Mio Dio, quanto è insopportabile l’auto-celebrazione di una Chiesa di massa o che si conta! Bisogna dare spettacolo di se stessa! Siamo fuori dalla logica dello Spirito di Cristo. E quando parlo di interiorità, non intendo quella falsa spiritualità che sarebbe forse meglio chiamare spiritualismo, che è una forma degenerata di sacralità interiore. Lo stesso Spirito santo è strumentalizzato da Movimenti ecclesiali che pretendono di imprigionarlo, dimenticando che lo Spirito per sua stessa natura è inafferrabile. Non sopporto i Movimenti cosiddetti pentecostali che vivono di effetti fisici fino al punto di cadere nel delirio. Lo Spirito è una forza interiore che non ama esprimersi in gesti esteriori.
C’è anche un potere di suggestione, di catalessi mentale, un potere che manipola le coscienze, che suggestiona gli spiriti deboli. Lo Spirito santo ama la libertà di coscienza, il vero progresso che non costringe nessuno a seguire regole o norme di gruppo. Ognuno è un sé irripetibile, singolare, non un numero che aumenta il prestigio.
“In nome di chi?”. Pensate: chiedono a Pietro e a Giovanni in nome di quale Dio essi avevano compiuto quel miracolo. Lo storpio era guarito, e poteva tornare a vivere nella normalità, non più costretto a mendicare. Non dimentichiamo che a quei tempi chi aveva un difetto fisico (zoppi, ciechi, storpi ecc.) o una particolare malattia (pensate alla lebbra), essendo socialmente improduttivi, venivano messi ai lati della strada a chiedere l’elemosina. Non bastava dar loro qualcosa per farli sentire come gli altri: per tutta la loro esistenza erano costretti a vivere in dipendenza.
Pietro e Giovanni non offrono come tutti qualche soldo, ma rimettono in piedi quel disgraziato, gli danno la possibilità di rientrare nella normalità di una esistenza come tutti. Ma a quei caporioni stava bene che le cose rimanessero invariate, secondo la volontà di un dio fatto su misura di una religione che stabiliva che le malattie o i difetti fisici fossero colpe di qualcosa che non rientrava in quel perfetto piano divino, per cui era assolutamente indispensabile distinguere i puri dagli impuri, i perfetti dagli imperfetti.
Se le cose cambiano in meglio o c’è un maggior beneficio, per quale motivo dovresti chiedermi: in nome di quale Dio lo hai fatto? Se proprio me lo chiedi, ti rispondo: in nome di un Dio che ama la libertà o il benessere di tutti, che non guarda se tu sei religioso o non lo sei.
Quei caporioni avevano visto che quello storpio si era alzato in piedi e camminava, eppure se la prendono, accusando Pietro e Giovanni di aver compiuto il miracolo a modo loro, senza aver ricevuto il permesso dell’autorità competente. È bene ciò che è bene, e non ciò che stabilisce il tuo partito politico o la tua religione. E solitamente succede che ciò che stabilisce il partito politico o la religione non sempre corrisponde al vero bene dell’essere umano. Rimettersi in piedi e camminare significa riprendersi la propria autonomia. Ogni struttura, politica o religiosa, ha bisogno di gente impedita, di sudditi costretti a obbedire perché incapaci di pensare o di agire in libertà. Eppure tutti dicono, con enfasi tale da incantare anche gli angeli: Dio ti vuole bene! Sì, ma quale Dio ci vuole bene? E che significa volere bene?
Dio non ci ama per compiacersene. Lui non ne ha bisogno. Ci ama perché vuole il nostro bene, e il nostro bene non è dare a Dio un maggiore auto-compiacimento. In altre parole, il nostro vero bene esce da ogni schema religioso. La gratuità dell’amore di Dio non contempla mai un ritorno a Lui: è chiaro che senza il Divino non possiamo essere noi stessi, non possiamo trovare una gioia profonda, ma il Divino è qualcosa che non rientra di per sé in alcun schema religioso.
La gratuità del nostro gesto verso gli altri non contempla la domanda: in nome di chi lo facciamo? Sentiamo che in quel momento c’è una tale sintonia con la sofferenza profonda dell’altro che qualsiasi motivazione che ci spinge appare fuori posto, oscura la gratuità del gesto.
Quando parliamo di gratuità, e se ne comprendessimo anche solo qualcosa, dovrebbero venirci i brividi. Dire gratuità è toccare quasi lo stesso Mistero divino. Purtroppo, nel nostro modo di vivere siamo molto lontani dal vero Dio.
Terminato il discorso, i capi del popolo rimangono colpiti dalla determinazione di Pietro e di Giovanni, anche perché, pur “essendo persone semplici e senza istruzione”, non si sono fatti prendere dalla paura di affrontare la gerarchia, più smaliziata e più colta.
Luca, che è l’autore del libro, usa una parola greca, “parresia”, che dice molto più della parola italiana “franchezza”. Il cardinale Carlo Maria Martini così spiega: «La parola greca “parresia” indica, qui e in seguito (cfr At 4,29.31; 28,31), la capacità di testimoniare liberamente e coraggiosamente il messaggio cristiano anche in un mondo ostile. Nel mondo greco essa significava la libertà di parola che spettava nell’assemblea al cittadino che godeva dei pieni diritti civili, e di conseguenza il coraggio e la franchezza con cui tale privilegio poteva venire esercitato».
Secondo Martini, ci sono tre termini che sono contenuti nella parola “parresia”: libertà di parola, testimonianza e coraggio.
Anzitutto, libertà di parola: la parola, nel caso del messaggio cristiano, è il Verbo per eccellenza, cioè la Parola di Dio che si è incarnata e ora resa attuale nello Spirito santo. La Parola non è uno schema o un dogma fisso da contenere: la Parola è la Libertà nello Spirito santo. La Parola è Novità, sempre imprevedibile, mai perciò scontata. È inafferrabile, come il vento.
Secondo termine: testimonianza. La Parola non va solo detta o annunciata con la bocca, non va solo proclamata con documenti. La testimonianza coinvolge tutta la nostra vita, a partire dalla nostra mente, dal nostro cuore, e poi dal nostro modo di essere e di vivere. Talora può essere anche una testimonianza silenziosa, in ogni caso deve toccare il nostro essere. Ciò non esclude una testimonianza corale o comunitaria. Ma in questo caso, dobbiamo stare molto attenti. Quando si fa massa, la testimonianza stride, si mette in urto con la Novità dello Spirito Santo.
Infine, ci vuole coraggio. E il coraggio non ci vuole quando si è massa: la massa protegge, non ci lascia mai soli. Il coraggio della solitudine! Quando si è soli a lottare, allora bisogna tirar fuori tutto il proprio coraggio, far prevalere il dovere che si ha di testimoniare la Parola dello Spirito. Carlo Maria Martini parla di diritto di parola. La pensatrice francese Simone Weil parla invece di un dovere. I diritti appartengono al mondo della forza e della violenza; i doveri invece appartengono al nostro stesso essere.
Testimoniare, dunque, la parola incarnata di Dio, nello Spirito santo, non è far valere un diritto, ma è un dovere per il fatto stesso che siamo cristiani, e, vorrei dire, per il fatto stesso che siamo esseri umani.

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