Omelie 2014 di don Giorgio: Seconda di Pasqua

27 aprile 2014: Seconda di Pasqua
At 4,8-24; Col 2,8-15; Gv 20, 19-31
I tre brani della Messa appartengono, il primo al libro “Atti degli Apostoli”, il secondo alla lettera che san Paolo ha rivolto ai cristiani di Colosse, città dell’Asia Minore, e il terzo al quarto Vangelo, scritto da Giovanni.
Durante il periodo pasquale i brani scritturistici sono tutti tratti dal Nuovo Testamento, e già questo vi fa capire la novità della Risurrezione di Cristo. C’è qualcosa di imprevedibile, e di inaccettabile da parte della religione ebraica. I riferimenti alla Risurrezione del Messia, presenti nel Vecchio Testamento, sono pochi e tutti impliciti. Se, come ha scritto lo stesso san Paolo, il Cristo crocifisso era uno scandalo per gli ebrei e una stoltezza per i pagani, il Cristo risorto era qualcosa di inconcepibile, da suscitare, oltre che un rifiuto, una specie di comicità. L’episodio di san Paolo che, ad Atene, mentre parla di risurrezione davanti ai pagani, rimane solo tra il dileggio e le risa dei presenti che se ne vanno dicendo: “Ti sentiremo un’altra volta”, è una dimostrazione di quanto fosse lontano dal mondo greco anche solo pensare alla vita dopo la morte. E sappiamo che anche tra gli ebrei c’era un dissenso su questo argomento: i sadducei, che ancora ai tempi di Gesù costituivano un partito più politico che religioso, molto influente e potente, benché poco numeroso, non credevano, a differenza dei farisei, nella risurrezione in genere.
La Chiesa primitiva non si è fermata solo all’annuncio: Cristo ha patito, è morto ed è risorto. Era il cosiddetto “cherigma”, ovvero il nucleo della prima predicazione apostolica. Ma i primi cristiani non si accontentavano di annunciare queste verità fondamentali per la fede in Cristo. Nello stesso tempo riflettevano, discutevano, approfondivano questi misteri. A loro interessava fino a un certo punto che Gesù fosse apparso a questo o a quello, a queste donne o a quegli uomini. Già l’ho detto: i racconti delle apparizioni, nei quaranta giorni tra la risurrezione e l’ascensione, sono frammentari, anche confusi, senza alcuna specifica cronologia. L’intento degli evangelisti era quello di portare i primi credenti, a iniziare dagli apostoli e dai discepoli di Gesù quando il Maestro era in vita, a rendersi conto di ciò che era successo in quel mattino di Pasqua; e, proprio partendo da lì, a riflettere su quanto Cristo aveva detto e aveva fatto in vista della sua morte e risurrezione.
In altre parole, il Mistero pasquale è il cuore del cristianesimo. E sarà sempre difficile, come lo è stato lungo i venti secoli che oramai ci separano da quei grandi Eventi che hanno rivoluzionato la storia mondiale, cogliere fino in fondo la realtà di questi Misteri. Ecco perché insisto nel dire che dobbiamo stare attenti: la Chiesa non ha fatto che istituzionalizzare i Misteri che sono la sorgente della nostra fede ma che non possono essere tenuti a freno tra le quattro mura di una religione-struttura. Anche se nessuno può bloccare Dio, in realtà si cerca di farlo, e a soffrirne siamo noi, non Dio. Siamo noi che ci allontaniamo dalla sorgente della vita.
Vorrei che capissimo qual è il nostro più grave errore di credenti. Il problema non sta nell’essere più o meno praticanti, ma nella fede profonda nel Mistero divino che dà senso alla nostra pratica religiosa.
Ecco la domanda impegnativa: per noi chi è Cristo? Quello storico o quello della fede? Il Cristo storico è lo stesso del Cristo della fede?
Se ci riflettiamo seriamente, il Cristo della religione non è altro che il Cristo storico, anche se rivisto e rimaneggiato più volte. Gesù è nato, così e cosà, Gesù ha fatto questo o quello, Gesù ha detto queste e queste altre cose, si è scontrato un po’ con tutti, è stato misericordioso verso i più deboli, ha compiuto dei miracoli, infine lo hanno preso, condannato e messo su una croce.
E poi, ecco il più grande miracolo: Cristo ha spiazzato tutti, risuscitando dai morti, ma non è rimasto sulla terra. A che sarebbe servito? Se fosse di nuovo rimasto, non avrebbe fatto che ripetere la sua storia precedente fino alla morte. E allora, qui sta il punto: la risurrezione che cos’è? come dobbiamo intenderla? Il Cristo della nostra fede si ferma agli eventi storici fino alla sua risurrezione, oppure la nostra fede è proprio nel Cristo risorto che rivive in noi e nella storia, ma in un modo del tutto diverso, diciamo nuovo, in confronto al Cristo storico?
Specifico ancora meglio: ciò che sto dicendo è troppo importante, vorrei perciò evitare di dire cose che possano confondere magari quelle poche certezze che ci sono rimaste.
Gesù, nei discorsi cosiddetti dell’Ultima Cena, i discorsi d’addio, riferiti dall’evangelista Giovanni, a un certo punto parla dello Spirito santo e dice (capitolo 16, versetti 5, 6 e 7): «Ora però vado da colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: “Dove vai?”. Anzi, perché vi ho detto questo, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ma io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito (il consolatore); se invece me ne vado, io lo manderò a voi».
I più grandi mistici – pensiamo soprattutto a Meister Eckhart, Margherita Porete, Henry Le Saux e anche a San Giovanni della Croce – parlando del distacco dalle cose per raggiungere la perfetta unione con Dio nel proprio essere interiore, si riferivano anche al distacco dalle stesse immagini di Dio: quelle immagini che tradiscono la vera identità di Dio, rendendolo un idolo. La parola “idolo” significa immagine. Nel suo famoso Sermone “Beati pauperes spiritu”, Meister Eckhart esce a dire: “Prego Dio che mi liberi da Dio”. Intendeva dire: preghiamo Dio che ci liberi dalle immagini che ci siamo fatti o che ci facciamo ancora di Lui. Preghiamo Dio perché ci liberiamo di queste immagini che disturbano, addirittura ci portano lontano dal vero Dio, che ci fanno da ostacolo al nostro incontro con Lui.
E Meister Eckhart citava spesse volte le parole di Gesù: “È bene che io me ne vada”, altrimenti lo Spirito non potrà agire in voi in tutta la sua libertà. Perché? Per il semplice motivo che rimaniamo sempre attaccati al Cristo storico: a quello che Lui ha detto o ha fatto, ma senza capire che bisogna andare oltre, se vogliamo dare allo Spirito santo la possibilità di completare l’opera di Gesù.
Noi, purtroppo, ci siamo fermati al personaggio storico di Cristo, e abbiamo costruito una religione, il cui unico scopo sembra essere quello di rifarsi solo alle immagini di Cristo, e ancor peggio tradendo lo stesso personaggio storico, facendo dire a Cristo ciò che non ha mai detto, o interpretando le sue azioni, senza cogliere il loro profondo significato.
I mistici si rifanno spesso al quarto Vangelo, perché Giovanni è stato tra i quattro l’evangelista che ha insistito di più nell’invitare i primi cristiani a non fermarsi al Cristo puramente storico, ma ad andare oltre, per cogliere ciò che è l’aspetto profetico o mistico.
Anche il brano del Vangelo di oggi è molto chiaro in tal senso: l’apostolo Tommaso vuole ancora toccare il corpo di Cristo per avere una prova della sua risurrezione. E Cristo come risponde? «Perché  mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Ecco il Cristo della fede!
Capite allora che non è facile parlare del Cristo risorto, e che gli stessi evangelisti si trovano in difficoltà ogniqualvolta narrano le sue apparizioni. La risurrezione di Gesù non è la conclusione gloriosa della vita umana di Cristo. La risurrezione ci porta quasi in un altro mondo: il mondo della fede, che è il mondo dello Spirito santo, il quale, lo ripeto fino alla nausea, non ha ricevuto l’incarico di farci ricordare ciò che effettivamente Gesù ha detto o ha fatto. Quasi fosse solo un garante. Noi sentiamo spesso dire: lo Spirito santo ha fatto sì che gli autori della Bibbia non dicessero il falso. È riduttivo dire questo. Non è degno dello Spirito santo, il cui compito invece è molto più grande e prezioso, e consiste nell’aiutare a cogliere e a vivere il Mistero divino in tutta la sua realtà.
Pensate allora a quel tipo di fede che purtroppo ha caratterizzato e tuttora caratterizza una certa Chiesa e le comunità cristiane. Ma che significa credere? Che significa che dobbiamo liberarci di tutte le immagini di Cristo e di Dio? Che significa praticare la fede? Che significa che la Chiesa non è solo una istituzione o una struttura o una religione?
Che dire di quella paranoica ricerca del miracolo, di quell’aggrapparci ai segni esteriori divini, come se, senza di essi, non potessimo credere?
Come possono convivere la spettacolarità, il folclore e la fede interiore? Si vogliono vedere madonne piangenti dappertutto, Dio che detta le sue regole, lo Spirito santo aleggiare come una colomba fisica sulle acque tempestose di questo mondo. Ma tutto questo è fede? Credere non sta nel vedere, non sta nel toccare, come ha preteso l’apostolo Tommaso, rimproverato dal Cristo risorto.
Da una parte ci sentiamo spinti ad aggrapparci alle immagini di Dio o di Cristo, e dall’altra sentiamo dentro un vuoto interiore: ci manca un qualcosa, sentiamo disagio di fronte ad una Chiesa che cerca consenso, che impone il proprio potere, attraverso anche manifestazioni di masse che applaudono i santi, dopo averli ignorati e magari uccisi.

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