22 giugno 2014: Seconda dopo Pentecoste
Sir 17,1-4,6-11b12-14; Rm 1,22-25.28-32; Mt 5,2.43-48
I tre brani della Messa sembrano collegati da quel rapporto profondo che unisce ogni essere umano. Un legame che diventa un obbligo, un dovere, un comandamento: quello dell’amore degli uni per gli altri.
Il primo brano descrive l’opera creativa di Dio con l’apparire dell’uomo, dotato di sensi e di intelligenza. L’autore del Siracide ricorda ciò che è stato detto all’inizio del libro della Genesi: l’uomo è stato creato a immagine divina. Il suo primo dovere consiste nel lodare il Signore e nel vivere in dialogo con Lui attraverso l’osservanza dell’alleanza e della legge. Il Signore osserva e giudica ogni cosa: il bene e il male. Tiene conto soprattutto delle opere buone e della generosità verso i fratelli miseri. «Disse loro: “guardatevi da ogni ingiustizia!” e a ciascuno ordinò di prendersi cura del prossimo».
San Paolo, nella sua lettera ai cristiani di Roma, fa una descrizione piuttosto drammatica dell’umanità, che ha tradito l’immagine divina per correre dietro agli idoli di ogni perversione. Tradire l’immagine divina significa disunire o scomporre ciò che unisce gli uni agli altri. L’elenco delle azioni indegne descritte dall’Apostolo riguarda tutto ciò che, in qualsiasi modo, slega l’uomo da se stesso, e questo succede perché l’intelligenza, ovvero la scintilla divina in noi, è venuta meno, ha perso lucidità, è diventata folle. Certo, c’è anche l’intelligenza del male (il demonio è un essere intelligentissimo), ma è una cosa diversa dall’intelligenza del bene. Purtroppo, la storia ci insegna che il male sembra prevalere con maggior facilità sul bene. I mezzi a disposizione del male appaiono più potenti e suadenti. Il male è sempre in discesa, mentre il bene è sempre in salita. Il male ruota attorno al proprio io, mentre il bene vuole comporre l’armonia cosmica, a partire dal singolo essere. Dire singolarità non significa dire egoismo. Ciò che i mistici chiamano egoità, ovvero la centralità assoluta ed esclusiva dell’ego, è la sede e la causa di ogni male.
Il brano del Vangelo è tolto dal Discorso della Montagna. Gesù sta contrapponendo la legge limitativa del Vecchio Testamento alla nuova legge, quella che Egli è venuto a portare. “Avete inteso che fu detto… ma io vi dico…”. Contrapporre non significa di per sé eliminare, ma completare, ovvero portare a compimento.
Vedete: il nostro difetto sta nel rimanere agli inizi di ogni cammino, senza procedere oltre; sta nell’anticipare la meta per gustarla come se fosse già conquistata; sta nell’accontentarsi del minimo, come se fosse un anticipo del massimo. E, quello che è peggio, vogliamo far credere, anzitutto a noi stessi, che basta un minimo per goderci la vita. Anzi, giudichiamo male quanti vorrebbero farci capire che dobbiamo camminare, maturare, andare oltre il presente immediato. E per non pensarci troppo, per non entrare in crisi, per non crearci dei problemi eccessivi, per non complicarci la vita, togliamo dalla nostra mente gli ideali più alti, non vogliamo pensare alla cima della montagna, diciamo: “Non è roba per me, la lascio ai folli a cui piacciono i rischi!”. È evidente che, togliendo la sete o la ricerca del meglio, alla fine mi abituo a convivere con le banalità e le miserie, che la vita ogni giorno mi offre.
Quando ha creato l’uomo e la donna, il Signore ha detto loro: Siete la mia stessa immagine! La conclusione del brano del Vangelo è in questa linea: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il padre vostro celeste». Qualche esegeta ha cercato di ridimensionare queste parole, ritenendole iperboliche, ovvero esagerate, eccessive, smisurate. È chiaro che non potremmo mai essere come Dio, ma è altrettanto vero, come dice la Bibbia, che c’è in noi qualcosa di divino, di infinito, di superlativo. Pensiamo a ciò che è l’intelligenza, la coscienza, l’anima o lo spirito. Un soffio divino!
È chiaro che, di conseguenza, anche il nostro comportamento, il nostro atteggiamento, il nostro modo di pensare devono corrispondere a ciò che siamo: ovvero, immagine divina. Non possiamo, dunque, accontentarci del poco, restare al punto di partenza. Il nostro impegno sta nel completare l’immagine di Dio in noi.
Guardate che ciò che sto dicendo non cambierebbe di per sé se uno non credesse in un dio. Che io debba amare il mio prossimo non è un comandamento puramente di fede. Neppure è una questione di fede che io debba amare anche il mio nemico, come invita a fare il Vangelo di oggi. Gli studiosi ci dicono che non è del tutto esatto che nell’Antico Testamento il Signore avesse detto di odiare i nemici, anche se gli ebrei tendevano a considerare come loro prossimo soltanto i connazionali. Ecco perché Gesù dice: «Avete inteso che fu detto: ”Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico». In altre parole: vi è stato detto così, ma era errato. Tuttavia, ciò era comprensibile. Gesù è venuto, appunto, per dire: Allungate il passo, aprite gli orizzonti, la meta è ancora lontana.
Se anche noi cristiani capissimo dove sta la forza rivoluzionaria del messaggio di Cristo! Noi parliamo sempre di buona novella, ovvero di Novità. Una novità, attenzione, che non è qualcosa di diverso dal passato, che non si distingue dagli inizi, casomai si distacca per procedere oltre. Che fatica ancora oggi educare i credenti ad una maturità che è crescita, cammino, una sempre maggiore coscienza della nostra vera identità.
Non sto dicendo che sia facile prendere coscienza di certi valori che appartengono all’Umanità. Valori già insiti fin dall’inizio, quando Dio ha dato il primo impulso all’universo. Anche qui riflettiamo: il progresso sembra inarrestabile, anche dietro la spinta dei nostri bisogni e talora di bisogni sociali e politici incontrollabili; ma perché allora non dovremmo comprendere che il progresso materiale dovrebbe andare di pari passo con il progresso spirituale? Diversamente, avremmo dei mostri: corpi smisurati con un’anima rattrappita! Non è questo il vero dramma dell’umanità? Perché ci sono le guerre? Perché ci sono le violenze? Il mostro è qualcosa di follemente sproporzionato. A che servirebbe lamentarci che la persona non è più rispettata, che la società è solo un mercato di affari e di porcherie? Anche nel nostro piccolo, non succede la stessa cosa?
Il Vangelo di oggi afferma che bisogna amare i propri nemici e che dobbiamo pregare per loro. Mi chiedo come possiamo addirittura amare i propri nemici, quando fatichiamo a uscire dal cerchio delle proprie amicizie, dal proprio gruppo di appartenenza, dai legami di parentela o di amicizia. Lo scandalo di oggi è il ritorno ad un razzismo che cerca le sue motivazioni anche nel campo religioso. Nemici diventano coloro che tolgono qualcosa al nostro benessere. Posso capire che uno ce l’abbia con chi gli ha fatto del male. In certi casi, perdonare lo ritengo assai difficile. Ma oggi vediamo nemici dappertutto.
Ce li creiamo. Ce li stanno creando, con una propaganda politica vergognosamente dis-Umana. Certo, un conto è creare una possibile convivenza sociale con le diverse razze e culture: il lavoro sarà duro e richiederà tempo. Un conto è chiudere ogni barriera, bloccare i confini di ciò che noi chiamiamo patria.
Cristo non ci invita a un buonismo facile. Il suo messaggio ha ben altra portata. È un duro cammino da percorrere: verso l’Umanità integrata. La Chiesa stessa deve fare un serio esame di coscienza. Ci sono ancora oggi nemici che sembrano mettere a rischio la sua dottrina, e ci sono ancora oggi nemici che la richiamano alla profezia.
Ho trovato questo commento di un prete, che ritengo degno di attenzione. «Gesù, nel Discorso della Montagna, ci chiede di superare l’equilibrio del diritto, della giustizia retributiva, della proporzione della vendetta, della proporzione tra l’azione e il risultato sperato; ci chiede di superare, come fa Dio, il criterio del merito, nel nostro rapportarci con gli altri uomini. Dio, appunto, fa piovere generosamente sia sul campo dei buoni come su quello dei cattivi. Il Vangelo ci chiede di essere i primi, di prendere l’iniziativa, di correre il rischio di non ricevere il contraccambio. La sfida di Gesù è proprio questa: alla fine i conti torneranno, perché il Regno di Dio si sarà dilatato un poco nell’esperienza degli uomini, anche grazie a noi. Forse Gesù ci potrebbe dire: “Anch’io ho corso questo rischio, amandovi. Forse dovevo rinunciare, di fronte ai vostri tradimenti e ai vostri dinieghi? E se lo avessi fatto, quale speranza ci potrebbe essere oggi per l’uomo?”.
Gesù non è venuto come un riformatore religioso o sociale. La riforma appartiene a noi, casomai. Ma egli ha piantato nel cuore di ogni uomo il dardo di una parola irreversibile, come irreversibile è la sua morte per ciascuno di noi: “Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4,11). La speranza del mondo sta proprio in quegli uomini, che possono dire: “Noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16) e che, magari cadendo, talvolta tradendo, talvolta mancando per clamorosa viltà di accogliere il rischio, non si stancano però di credere che, se qui e ora, anche soltanto per una volta, riusciranno a liberarsi dalle loro paure e dal loro egoismo, immetteranno nel mondo un’energia positiva come una goccia di colore può cambiare un intero mastello di acqua» (don Giuseppe Dossetti, presidente del Ceis di Reggio Emilia).
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